LA CITTA' SENZA PIANO TERRA
di Luca Molinari
Professore presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"
Quando pochi anni fa ho trovato tra gli scaffali di una libreria di Shanghai il libretto Cities Without Ground: A Hong Kong Guidebook scritto da Adam Frampton, Jonathan D. Solomon e Clara Wong, ho percepito che il mondo delle mappe stava facendo un salto in avanti interessante e spiazzante. Questo lavoro parte da un presupposto interessante, ovvero che Hong Kong non si possa più leggere a partire dal suo pia-no terra e che ci vogliano altri strumenti cartografici e narra-tivi per raccontarla.
In una metropoli cresciuta ossessivamente e necessariamente in verticale, dove, nello stesso edificio, gli ingressi ai centri com-merciali sono al quinto piano e la hall per il blocco residenziale si situa al ventunesimo livello, mentre i collegamenti tra un grat-tacielo e l’altro sono ottenuti grazie a una serie di ponti volanti a livelli differenti, il tradizionale piano terra perde di senso. Allora Hong Kong viene narrata attraverso coloratissime as-sonometrie che mostrano i flussi, trasformando gli edifici vi-cini in impalpabili fantasmi.
Il lavoro dei tre studiosi è l’ultimo di una generazione di nar-razioni urbane che stanno ripensando l’uso delle mappe per raccontare la geografia dell’antropocene maturo.
Prima di loro ci furono gli Atelier Bow-Wow con Made in Tokyo, pubblicato nel 2001, le rappresentazioni visionarie di Hong Kong realizzate da Studio MAP, i lavori di Peripheriques Architectes sulle nuove forme di prossemica urbana, il libro Mapping Istanbul di Pelin Derviş e Mürat Guvenç del 2008. Tutte metropoli asiatiche perché il problema della rappresenta-zione nasce a Oriente, quando la densità delle nuove metropoli mette definitivamente in ginocchio il sistema cartesiano e rina-scimentale di rappresentare il mondo e i suoi confini.
In tutti questi casi il piano terra è scomparso, e senza la terra su cui camminiamo come possiamo costruire nuove mappe?Si potrebbe dire che tutto sia cominciato con una mostra. Nel 1999, presso il Frac di Bordeaux, Rem Koolhaas, Mul-tiplicity, Sanford Kwinter, Nadia Tazi e Hans Ulrich Obrist curarono Mutations, un’esposizione-laboratorio che metteva in scena la morte delle mappe tradizionali e la necessità d’in-dividuare nuovi strumenti per raccontare il presente metro-politano globalizzato. La somma di fotografie, video, suoni, diagrammi degli infiniti paesaggi urbanizzati e l’interrogarsi incessante su che parole usare per descrivere un fenomeno nuovo e spiazzante, ci dicevano che la certezza delle mappe trigonometriche che avevano descritto un mondo sempre più moderno ed espansivo era terminata e necessitava di una radicale rigenerazione.
In quegli stessi anni gli Stalker, uno studio di giovani studenti di architettura romani, cominciò a lavorare sulla pratica della deriva urbana applicata al territorio metropolitano della Città Eterna e riprendendo le lezioni di psico-geografia di Guy Debord,
realizza una serie di attraversamenti nella vasta periferia di questa città. Le foto e le mappe che vennero prodotte celano a malapena lo stupore dell’incontro con un territorio sconosciuto, come se gli autori fossero dei navigatori in un territorio vergine. La generazione che tra gli anni Novanta e i primi decenni del nuovo secolo ha lavorato su queste nuove forme di rappresentazione ha espresso innanzitutto la meraviglia spiazzante di trovarsi di fronte a continenti emersi improvvisamente, quando tutto sembrava già raccontato e rappresentato. In un mondo in cui Google Maps sembra aver cancellato gli ultimi lacerti del senso dell’ignoto che spinse l’umanità intera in viaggi, esplorazioni e produzione di mappe per almeno 500 anni, ci ritroviamo quasi all’anno zero. Da una parte le cartografie classiche, quelle senza cui era impensabile viaggiare fino a pochi anni fa, sembrano dei meravigliosi oggetti vintage da appendere alla parete, dall’altra ogni navigatore da cellulare ti può offrire solamente uno strumento utile per l’immediato, ma miope se cerchi di avere una panoramica più ampia dei luoghi che stai attraversando.
I libri di cui abbiamo accennato sono il tentativo di offrirci una nuova big picture, per consentirci di alzare lo sguardo e costruire una narrazione critica, diversa, dei luoghi che tanto rapida-mente stanno cambiando davanti a noi. Per orientarci ma, soprattutto, per riconoscere una dimensione della geografia che dovrà essere sempre più trasversale e meno umano-centrica, per narrare la ricchezza dei mondi che attraversiamo e voglia-mo colonizzare. Ogni decennio gli stati nazionali rivedono le mappe dei luoghi per offrire una nuova immagine dello stato dell’arte. Il problema è che la maggior parte di queste geografie muta con una tale velocità da rendere obsoleta ogni forma di rappresentazione e per questo ci affidiamo ai satelliti e a una lettura schiacciata sul momento che viviamo, perdendo così ogni idea di densità e, insieme, di prospettiva. Queste sono le mappe dell’eterno presente in cui siamo imprigionati.
Ma, nello stesso tempo, mappare il mondo vuole dire esercitare il diritto di un esercizio critico di ascolto e riconoscimento di fenomeni che, diversamente, non vedremmo, perdendo par-te di quella ricchezza del reale che nutre i nostri immaginari. Per questa ragione credo sia importante tornare a produrre mappe che ci orientino in maniera diversa, regalandoci la possibilità di viaggiare, perderci e incontrare l’Altro di cui abbiamo un disperato bisogno.