I MATERIALI: UNA SCELTA CONSAPEVOLE

di Lorenza Baroncelli
Direttore artistico Triennale Milano

Nel 1968, Ray Eames e suo marito Charles scrissero e diressero il cortometraggio The Power of Ten, un viaggio immaginario dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo scalando una potenza di 10 ogni 2 secondi. A partire da un picnic in riva al lago di Chicago, ci trasporta in maniera ipnotica e suggestiva fino ai bordi esterni dell’Universo, quando la nostra galassia è visibile solo come un granello di luce tra molti altri. Poi torna sulla Terra con velocità mozzafiato, entra nelle mani dell’uomo sdraiato sul prato fino a mostrarci l’interno di un protone di un atomo di carbonio in una molecola di Dna in un globulo bianco.
Qualche giorno fa mi è capitato di rivederlo, riportando alla mia mente quella suggestione permanente, la domanda e la curiosità che occupa i pensieri di molti scienziati, filosofi e pensatori e che in questi tempi di riflessione post-pandemia diventa ancora più centrale. Vita e materia. Impatto dell’attività umana e sue conseguenze. 
Tutti, soprattutto in un momento drammaticamente complesso come quello che stiamo vivendo dobbiamo interrogarci sul modo in cui abbiamo vissuto in questi anni e ciò che invece ci aspetta nell’era post-Covid. 
Il mondo dell’architettura e il dibattito tra urbanisti non può rimanere ovviamente insensibile a questo tema. La domanda centrale di qualsiasi ragionamento è al tempo stesso la più semplice ma anche la più complessa e delicata e si riassume in poche parole: il nostro modo di concepire l’architettura è il più giusto e funzionale per interpretare le sfide del futuro? 
In molti, e io sono tra questi, pensando a quale possa essere l’edificio capace di rappresentare meglio l’idea di architettura del XX secolo, penserebbero immediatamente al Padiglione tedesco disegnato da Mies van der Rohe all’Esposizione internazionale tenutasi a Barcellona nel 1929. Un edificio rivoluzionario che parte dal concetto di pianta libera (il less is more che in ben altro contesto Pep Guardiola adatterà quasi un secolo più tardi alla sua architettura calcistica, approdando alla conclusione che il miglior centravanti di una squadra di calcio è lo spazio libero davanti, ma questa è, ovviamente, un’altra storia). La pianta libera dunque, al centro di tutto. Per sottolineare il concetto, evidenziando il carattere non portante delle pareti, l’architetto tedesco utilizza lastre di pietra pregiata come il marmo di Tino, o quello antico di Vert. L’onice dorato, il vetro colorato grigio, verde, bianco e traslucido invece fungono unicamente da preziosi elementi divisori che sembrano intrecciarsi e fluire l’uno dentro l’altro al di sotto e oltre il tetto in modo tale da creare una continuità tra esterno e interno. Una meravigliosa audacia, un modello espresso platealmente, in maniera sfrontata ed elegantissima che infatti diviene immediatamente il modello a cui guardare. Di più, l’essenza di ciò che può e che deve essere architettura. 

Ricerca, creatività, provocazione e libertà. Composizioni di forme e luci, di ideali espressi in forme estetiche. 
Il problema arriva dopo Mies van der Rohe, perchè con il passare degli anni la domanda dei materiali aumenta, industrializzandone la produzione. Il paesaggio si trasforma, il cemento diventa dominante. L’architettura perde il contatto con la ricerca dei materiali. Le domande sull’impatto dell’opera umana, sull’origine, la provenienza, lo smaltimento dei materiali non trovano spazio in una società che corre invece veloce e deve rispondere a una crescente domanda di urbanizzazione. Prendiamo proprio il cemento che, si sa, è composto da sabbia. Abbiamo quasi l’impressione che sia infinito. Soprattutto nell’era dei cambiamenti climatici e della desertificazione, ci sembra abbastanza scontato pensare che i deserti non finiranno mai. E invece non è cosi: i materiali inerti utilizzati vengo-no da specifiche aree geografiche e non sono infiniti. Quando un edificio verrà dismesso, il cemento non potrà essere restituito alla sua precedente natura. Senza considerare le emissioni di anidride carbonica e più in generale le conseguenze sociali o ambientali che si ripercuotono sui territori da cui i materiali vengono estratti.
Un ragionamento simile potrebbe esser fatto per il legno e per qualsiasi altro materiale. Vale per tutto, anche per i pannelli solari che pure sono certamente un modello virtuoso a cui guardare: anche la loro estrazione genera un impatto nelle comunità da cui viene prelevata, così come il suo successivo smaltimento.
Ecco allora che il tema della scelta dei materiali di costruzione non è più semplicemente legata a elementi estetici o funzionali dell’opera che viene realizzata, ma implica un percorso di responsabilità sociale, un ripensamento più profondo e complesso sui modelli di società, sulle responsabilità di politica, architettura e urbanistica.
Costruzione = estrazione: possiamo concepire un’architettura basata su un altro assioma?
Come racconta Joseph Grima nella sua ultima ricerca pro-mossa dalla fondazione VAC e intitolata Non-extractive architecture, oggi ci dovremmo profondamente interrogare sul reale orizzonte temporale e fisico degli edifici che costruiamo e più in generale sulle implicazioni che qualsiasi opera umana determina sul pianeta. La drammatica esperienza del Covid-19 sottolinea le nostre fragilità. La forza dirompente della Natura e la presenza di equilibri delicati che devono essere rispettati. Il dovere di chi progetta la città del futuro è quello di tenerne conto. Di proteggere e rispettare. Consapevolmente.