PIAZZE D'ITALIA TRA PUBBLICO E PRIVATO
di Claudia Mainardi
Architetto e co-fondatrice Fosbury Architecture
Sebbene in ambiente urbano sia diffusa la tendenza a ritenere bene comune qualunque superficie non delimitata, gli spazi aperti delle città si compongono sia di aree considerate tradizionalmente pubbliche, sia di altre cosiddette collettive, le quali – utilizzando un termine coniato da Manuel de Solà-Morales negli anni ’90 – sono caratterizzate da un uso pubblico, ma da proprietà e gestione privata (1). In altre parole, le piazze non sono più solo patrimonio pubblico atto a svolgere l’originaria attività comunitaria, così come la città sembra non essere più solo affare dei progettisti. Esempi virtuosi di recenti spazi urbani progettati da architetti certamente non mancano – come confermato dal vincitore del Premio Gubbio 2021 –, eppure non bastano per descrivere la complessità di processi contemporanei in atto. Lo spazio della città si è modificato sensibilmente in termini di usi, attori e necessità in risposta all’evolversi del tempo, dell’economia e della società, andando a delineare diversi esempi di piazza coesistenti tra loro.
Forse anche a causa della pandemia che – per overdose di “raduni virtuali” – ha in un certo senso permesso di rivalutare l’importanza dello spazio pubblico, le piazze storiche dei centri urbani italiani – da Milano a Riesi e da Prato a Bari, per citarne alcune – si stanno caratterizzando non tanto per interventi strutturali del tessuto urbano, quanto piuttosto per interventi minimi, puntuali, il più delle volte temporanei, siano essi definiti dall’inserimento di alberi, fioriere, panchine e tavoli da ping-pong, o semplicemente stanno restituendo una nuova immagine dello spazio grazie ad un abbondante uso di vernice. Una pratica tutt’altro che nuova se si pensa alla “rivoluzione urbanistica di Barcellona” con le sue supersillas (2).
Questi progetti – cosiddetti “tattici” – sono veloci, economici, hanno un impatto immediato e prevedono il coinvolgimento dei cittadini. Ad onor del vero, questo genere di interventi, è tanto orizzontale da non richiedere alcun genere di titolo per la sua messa in opera. Il progettista non è dunque il professionista ma il cittadino interessato al bene comune in un atto di “riappropriazione”. In aggiunta, anche come possibile risposta all’affermazione del paradigma culturale legato allo sviluppo sostenibile – da implementare nelle pratiche ordinarie –, un atteggiamento basato sul riuso della città esistente e sulle sue capacità temporanee potrebbe giocare un ruolo importante, in grado di affrontare le diverse sfaccettature e necessità della città contemporanea.
Come possono dunque i designers inserirsi in questi processi?Considerando l’ormai indubbia condizione che vede l’espansione dei confini disciplinari oltre la professione stessa, il ruolo del progettista si configura come ibrido, mediatore e detentore di un sapere la cui applicazione non necessariamente vede una traduzione materiale.
In fondo l’Italia di piazze ne ha già moltissime. Certo di tanto in tanto qualcuna se ne aggiunge, ma l’infrastruttura di base non si può dire che manchi. Ciò che sembrerebbe necessario e urgente riguarda piuttosto la modalità tramite cui inserirsi nella specificità del tessuto esistente, sia esso centro consolidato o nuova costruzione. In questa prospettiva è essenziale riuscire a comprendere le esigenze contemporanee rispondendo programmaticamente. Una prova non da poco, che non può che scaturire da un’attenta conoscenza del luogo, nonché dall’interpretazione degli usi dei molteplici attori che lo vivono, siano essi bambini o anziani, residenti di lunga data o nuovi cittadini. Una prospettiva che si inserisce all’interno di quelle che Jane Rendell definisce critical spatial practices, per riferirsi a pratiche che operano «all’intersezione tra teoria e pratica, pubblico e privato, arte e architettura» (3) e la cui attività non è volta a percepire il design solo come mezzo per fornire risposte, ma piuttosto per porre domande, ripensare la propria pratica professionale, nonché i codici di cui la stessa si compone (4).
Il tempo del progetto autoriale sembra concluso. Il lavoro dell’architetto non può più essere concepito come unico al vertice del processo creativo, al contrario sembra sempre più necessario un approccio collaborativo – sia tra professionisti di discipline differenti sia con i cittadini –, trovando strategie tra interesse collettivo e individuale, dunque utilizzando al meglio le potenzialità di ognuno. Ma ancor più, perché non concepire il ruolo del designer come mediatore e facilitatore tra le parti non tanto intervenendo attraverso la progettazione di nuovi manufatti ma valorizzando selettivamente l’esistente attraverso un approccio strategico-programmatico?
- Federica Doglio e Mirko Zardini, Dopo le Crisi: 1973, 2001, 2008, 2020, LetteraVentidue, Siracusa 2021.
- Spazi pubblici usati solo da pedoni e ciclisti.
- Per Rendell queste pratiche sono principalmente influenzate da L’Invenzione del Quotidiano di Michel de Certeau, La Produzione dello Spazio di Henri Lefebvre e la teoria critica della Scuola di Francoforte.
- Markus Miessen e Nikolaus Hirsch, What is Critical Spatial Practice?, Sternberg Press, London 2011.