LO SPAZIO LIBERO

di Luca Molinari
Professore presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"

Camminando in una delle tante, belle, piazze in un centro storico italiano mi sono imbattuto in una lapide posta sopra una grande fontana che così diceva: «per l’utilità pubblica e per la bellezza del luogo». La fonte e la piazza, che intorno era stata disegnata, erano state immaginate come un luogo unitario che portasse beneficio funzionale e insieme qualità ambientale diffusa. Non c’era alcuna distinzione tra qualità estetica e urgenza pratica, perché entrambe concorrono a rendere quel luogo uno spazio in cui una comunità possa vivere facilmente e in cui possa identificarsi. Questo è il carattere principale di ogni piazza, al di là dello stile e del tempo in cui è stata concepita e, insieme, è uno dei caratteri originali e principali della cultura urbana italiana ed europea.
Si tratta di un elemento così immediato e diffuso da essere vissuto con una naturalezza primordiale. Noi sappiamo che al centro di un borgo o di una città ci saranno una o più piazze con forme e caratteri differenti. Noi sappiamo come usare quello spazio vuoto e ne conosciamo tutte le recondite potenzialità. E chi le incontra la prima volta, magari arrivando da culture molto differenti, impara ad abitarle con altrettanta facilità. Le nostre piazze hanno poi imparato a utilizzare ogni elemento della geografia in cui sono fondate trasformandole in caratteri costitutivi del luogo.
Il quarto lato di Alberica a Carrara è una montagna, anzi, è la parte terminale e boscosa che riveste nella parte inferiore quel prezioso, unico, tesoro che sono le cave di marmo bianco che risplendono al sole. Sedendo ai margini del lato opposto della piazza si vive una sensazione di progressiva seduzione per quel ventre verde che irrompe sulla scena. Piazza Vittorio Veneto a Torino, il cui sfondo extra-urbano è la chiesa di Gran Madre di Torino e le colline retrostanti; i Sassi di Matera che guardano, confondendosi cromaticamente, con la Gravina che hanno addomesticato.
Ogni piazza è il racconto di una stratigrafia che dobbiamo imparare a leggere per dare forma consapevole alla meraviglia che ci coglie. Pensate alla piazza ellittica di Lucca, che si è divorata l’antico anfiteatro romano; a quella del Duomo di Milano, che lascia intravedere le tracce delle violenze sul quartiere esistente, abbattuto; ai campi veneziani in cui i bambini giocano a pallone incuranti delle macchine, che non esistono, mentre ogni frammento edilizio che si affaccia su quei vuoti irregolari racconta dei mille seicento anni di vita di questa metropoli lagunare. Ma dopo un secolo in cui le piazze e i luoghi di comunità sono stati la reale vittima di una crescita urbana aggressiva e poco consapevole della necessità sociale e simbolica, stiamo tornando a ragionare sulla centralità di questi vuoti nobili e disegnati, malgrado la pandemia e le tante, inutili, sirene che cantavano la fine della città.

Noi abbiamo bisogno di nuovi luoghi aperti, di comunità in cui ritrovarsi e abbattere le paure che stanno segnando questo nostro tempo. Fissare la nostra attenzione sui “vuoti” potenziali che ci circondano e su cui lavorare con il progetto vuol dire acuire l’esercizio di percezione di quei dettagli, sottigliezze, che abitualmente ci sfuggono a causa della rapidità con cui consumiamo i luoghi in cui siamo immersi.
Questa strategia potrebbe diventare uno strumento prezioso per tornare a guardare il Mondo in maniera differente, concedendoci anche quegli inciampi che sembravano ormai esclusi dalla pratica dell’infallibilità nevrotica metropolitana.
Il vuoto è materia viva, ci avvolge, ci accompagna in ogni attimo, è parte necessaria della nostra vita. Nel vuoto ci muoviamo, nel vuoto cadiamo, del vuoto siamo terrorizzati, con il vuoto progettiamo quello che diventerà corpo abitabile nel prossimo futuro. Nella cultura occidentale il vuoto è da sempre una materia perturbante, che ci mette in costante discussione, eppure lavorare con il vuoto che ci abbraccia è un gesto primario, quasi arcaico.
Nella società dell’invisibile, delle connessioni impalpabili, possiamo ormai accettare che il vuoto sia materia prima della nostra vita, da trattare con cura perché è uno dei veri beni comuni esistenti nel nostro infinito paesaggio metropolitano. Leggere le nostre città con questa prospettiva supera definitivamente l’idea che i luoghi che abitiamo sono composti rigidamente di pieni e vuoti, ci porta a concepire lo spazio urbano come una materia instabile, come organismo alveolare, come risorsa potenziale che dobbiamo guardare e attivare con molta cautela. I vuoti formali (piazze e strade) e informali (slarghi, spazi abbandonati e senza destinazione chiara) sono i veri centri di relazioni necessarie e possibili. Ogni corpo e vuoto esiste solo se lo sappiamo attivare e leggere, consegnandogli un valore vitale e costruttivo per le nostre vite. Infatti ogni vuoto, in quanto potenziale di relazioni inedite, è temuto dai poteri totalitari, perché esprime quella libertà radicale che si apre a ogni possibile forma di sperimentazione sociale e simbolica. Il vuoto è insieme assenza cercata e coltivata. È una forma di silenzio consapevole, una distanza critica dalle cose e una difesa per sedimentare con lentezza le memorie preziose della nostra vita. Il vuoto è lo spazio sgombro per nuove visioni, è luogo del pensiero libero, radicale e generoso, aperto e senza paura. In un tempo di paure e amnesie, il vuoto diventa una scelta, una risorsa pedagogica e un laboratorio potenziale d’innovazione, in risposta ai troppi muri che si alzano. Da questi vuoti offerti dai nostri territori metropolitani possiamo ripartire per immaginare le diverse città che verranno e di cui abbiamo bisogno.