CI VEDIAMO IN PIAZZA?

di Marta Stella
Responsabile comunicazione e Consigliere delegato Borio Mangiarotti

Poco tempo fa abbiamo presentato un progetto per una nuova costruzione residenziale a Milano nell’ambito di una piazza esistente. L’organismo preposto alla sua valutazione ha bocciato il progetto non per una motivazione estetica (il concetto del “mi piace, non mi piace” è soggettivo e non è pertinente in questo tipo di valutazione) ma per una questione morfologica. La piazza infatti, nel suo significato urbanistico, può definirsi come uno spazio libero, limitato da costruzioni. 
Nel parere della Commissione viene specificato «che la morfologia della piazza debba essere non solo rispettata ma sostenuta e completata. In caso di presentazione di una nuova soluzione progettuale, si invita a valutare ipotesi coerenti con il tessuto preesistente, consolidando il fronte urbano». Ebbene, il progetto del nostro nuovo edificio non “delimitava” la piazza alla stregua degli altri edifici esistenti e si configurava quindi come un elemento non armonizzato con il contesto e non rispondente alla nozione secondo cui la piazza, libera o meno che sia, debba essere chiusa. 
Questo parere ha inevitabilmente innescato un dibattito inter-no su cosa si debba intendere per “piazza” oggi, su come le regole per definire uno spazio “piazza” debbano evolvere nel tempo e adattarsi a una città e a uno stile di vita che cambiano. Sono queste stesse regole di progettazione di una piazza uno strumento necessario a garantirne la fruibilità?
Il dibattito è aperto e ancora in corso.
Nell’edilizia cittadina la piazza rappresenta uno degli elementi più importanti, sia per funzione che per significato.
Dal punto di vista etimologico, il nome proviene dal greco plateia e dal latino platea ovvero “strada larga, spazio libero e ampio”. 
Un luogo di scambio e di incontro spontaneo dunque, come in generale deve essere lo spazio pubblico, che per questo è anche simbolo di democrazia.
Se nel passato la piazza assumeva un ruolo centrale e una funzione ogni volta diversa (civica, religiosa, commerciale o popolare), questa perdita di riflessione progettuale ha fatto sì che nel corso del tempo la stessa nozione di piazza abbia perso di importanza, tanto da vedere spuntare «nuove piazze che non hanno alcun legame con la città in cui vengono realizzate e che annullano, il più delle volte, lo stesso interscambio sociale e funzionale lasciando, dunque, una sorta di sterile vuoto urbano».
Non per nulla oggi a Milano assistiamo a un lavoro importante di recupero e restituzione alla collettività di piazze secondarie, di quartiere, che sono diventate aree di sosta temporanee per le auto o zone di degrado. 

Questa valorizzazione avviene grazie al programma Piazze Aperte promosso dal Comune di Milano, che applica l’approccio del cosiddetto “urbanismo tattico”, ovvero la rigenerazione urbana a scala di quartiere attraverso interventi spaziali e politici a breve termine, a costo ridotto e tramite il coinvolgimento dei cittadini.
Nel fare ricerca per questo numero di Urbano dedicato alle piazze, mi sono ricordata del mio tema dell’esame di maturità. La traccia riguardava proprio la Piazza come luogo di incontro e di memoria, e tra i vari documenti messi a disposizione di noi studenti c’era un estratto dal saggio di Walter Gropius Discussione sulle piazze italiane (Milano 1954), che fa appunto riferimento a quei ritmi di vita e a quella socialità che lo spazio pubblico dovrebbe favorire e incoraggiare:
«Ero appena tornato da un viaggio nel Messico, dove ero rimasto molto colpito dall’intensa vita del Cuore nei villaggi messicani. Ognuno di essi possiede una piazza piuttosto grande con portici tutto intorno, e la gente è sempre lì a comprar nelle botteghe, a pettegolare, mentre i giovani fanno la corte alle ragazze. Questo è il vero centro nella vita del villaggio. Provai a spiegare ai miei studenti che valeva la pena di studiare questo elemento e che dovrebbe essere possibile creare anche negli Stati Uniti Cuori di questo genere. Ma gli studenti rifiutarono la mia proposta perché pensavano che l’idea di una piazza circondata da portici appartenesse troppo al passato e che non fosse adatta alla vita di oggi. Così io mi domandai se l’aver suggerito un tale argomento non era dovuto al fatto che io avevo una mentalità d’altri tempi. Ora però so che rifiutarono la mia proposta perché non sapevano di che cosa si trattava: non avevano mai visto una cosa simile, non l’avevano mai sperimentata, perciò non potevano capirla. Non molto tempo dopo ricevetti una lettera da uno di essi, un ragazzo molto dotato, che era stato in Italia e aveva visto Piazza San Marco. Ne era rimasto così impressionato che mi scrisse ricordando la nostra discussione».
Forse quello che dobbiamo riscoprire è un modello più semplice, più umano, come ci viene insegnato dalle nostre città storiche, che sono vivibili, a misura d’uomo e che fin dal Medioevo e dal Rinascimento continuano a insegnarci le for-me e i modi dello stare insieme.