SCRITTI E RISCRITTI

di Davide Mosca
Scrittore e Direttore della Libreria Verso di Milano

Di qualsiasi cosa parlino i grandi libri parlano anche di un altro libro. In questo senso si può dire che ogni libro è una riproduzione. Non intendo solo i casi manifesti, per esempio quelli che ricadono nell’ambito della meta-narrazione o in quella della derivazione dichiarata, filone sempre fecondo, e tornato prepotentemente in auge negli ultimi anni, per esempio con tanti romanzi che raccontano i miti greci da altri punti di vista, in testa alle classifiche di vendita al di là e al di qua dell’Oceano. Mi riferisco all’idea stessa che sottostà alla scrittura, che quindi è principalmente riscrittura. 
«Saccheggio Raymond Chandler a piene mani» sosteneva James Crumley, con ogni probabilità il più dotato scrittore di noir degli ultimi cinquant’anni. «Lo diceva anche Eliot: i cattivi scrittori copiano, i buoni rubano. Questa, lui l’aveva rubata a un poeta francese.» E nella biografia di Philip Roth si legge che agli albori della carriera stava per mollare, poiché non riusciva a trovare la propria voce. Poi gli capitò di leggere Le avventure di Augie March di Saul Bellow e restò folgorato sia dal «tono ampollosamente colloquiale» sia dalla «tentacolare sovrabbondanza narrativa». Capì dì aver trovato nella voce di Bellow la via per la propria. Tutto quello che doveva fare era riprodurre Bellow, a modo suo. 
Quello che è noto per arte e cinema, vale anche nel contesto della letteratura, sebbene in maniera meno evidente e più sfumata. Quando qualcuno scrive ha sempre in mente, consciamente o inconsciamente, almeno un’altra opera a cui in qualche maniera sta rispondendo.
Partiamo dall’inizio, sebbene un vero inizio non si possa rintracciare, perché il primo testo, qualsiasi venga preso in considerazione tra i possibili candidati, ha già un precedente a cui in qualche modo si rivolge. Restiamo in occidente e pensiamo all’Iliade: se anche fosse falsa l’affascinante teoria secondo il quale sarebbe la traduzione di un poema troiano, non si può negare che attinga a materiali precedenti, orali o meno, che Omero o chi per lui rielabora in vario modo. E da lì in avanti non ci sarà opera “epica” che in qualche modo non dovrà farci i conti, se non altro per prenderne le distanze. Più o meno lo stesso si può affermare per l’Odissea. Il filo che da queste due opere è teso fino ai giorni nostri è impreziosito da una quantità impressionante di perle: Eneide, Divina Commedia, Ulisse solo per citarne tre fuori mercato. 
D’accordo sono capolavori, è normale che esercitino influenze si potrebbe obiettare, ma il punto è che non c’è scena senza retroscena, non c’è testo senza sottotesto, non c’è primo capitolo senza prologo nascosto, e soprattutto non c’è vero scrittore che non sia innanzitutto un lettore. Borges, maestro di riproduzioni, amava ripetere che preferiva essere ricordato come instancabile lettore. 

In questo secolare gioco di rimandi, trovo di particolare interesse coloro che rispondono a sé stessi scegliendo la rischiosa via della permanente autoriproduzione. E non parlo di scrittori ordinari o seriali, ma di autentici fuoriclasse. 
Un giornalista fan di Bob Dylan – premio Nobel per la letteratura, non dimentichiamolo – riesce finalmente a intervistarlo dopo aver atteso l’occasione per anni. All’appuntamento è molto emozionato, si considera un profondo conoscitore del menestrello del Minnesota, e non si fa problemi a confessarglielo. «So tutto di te e della tua arte», gli dice. Gli frullano in testa mille domande, non sa da quale partire, così decide di comincire da quella che ritiene fondamentale: gli chiede come è riuscito nel miracolo di scrivere un numero così incredibile di canzoni uniche e meravigliose. Dylan lo guarda a lungo e poi, a mezza voce, gli risponde che forse non lo conosce così bene, perché lui non ha fatto altro che riscrivere sempre la stessa canzone. Non è lo stesso caso del recente Nobel Annie Ernaux? La formidabile scrittrice francese ha raccontato per tutta la vita la stessa storia, con un sapiente uso della macchina da presa, che ora indugia su un passaggio ora su un altro, e quando ritorna sullo stesso, lo fa attraverso nuove inquadrature e diversi registri. Nonostante questo ripiegamento – o forse proprio al fatto di averlo portato alle estreme conseguenze con magistrale perizia – ha saputo legare il personale all’universale, trasformando il proprio ombelico nell’umbelicus orbi.
Tra i tanti esempi emblematici del Novecento ne scelgo infine uno che mi tocca da vicino, perché riguarda uno dei miei romanzi preferiti, Poiché ero carne di Edward Dahlberg, uscito negli Stati Uniti nel 1964. Lo scopro grazie a Roberto Calasso, l’editore di Adelphi: quando in un’intervista gli chiedono di fare un solo nome tra i grandi romanzi pubblicati dalla sua casa editrice, lui cita questo. Silenzio, imbarazzo, non lo conosce nessuno, o quasi. Vado immediatamente a ripescarlo e ne rimango affascinato, perché Dahlberg unisce la potenza narrativa di matrice americana alla prosa raffinata e all’erudizione europea, la strada all’enciclopedia, il comico al tragico, il picaresco al filosofico, l’autobiografismo al simbolismo, creando un’opera stratificata e irripetibile, che entra di filata tra i miei grandi amori. Anni dopo, in una bancarella, mi imbatto per caso in un altro romanzo di Dahlberg, Vita da cani, il suo esordio del 1929, che riservo trepidante per un lungo viaggio in treno, ma quando arrivo a destinazione sono distrutto, il romanzo è terribile, va di pari passo con il titolo. Peccato che sia lo stesso romanzo! Un Poiché ero carne di trent’anni più giovane, ma senza né arte né parte. Quando tre decadi più tardi Dahlberg riscrive la stessa vicenda, con i medesimi personaggi e le medesime ambientazioni, compie un’impresa leggendaria, tirando fuori da un romanzo mediocre uno dei grandi capolavori del Novecento. Perché ogni libro è una riproduzione, e spesso la copia è migliore dell’originale.