NUOVE NOTRE-DAME

di Javier Arpa
Direttore di The Why Factory

Tre sono i periodi distintivi nella storia della cattedrale di Notre-Dame. Il primo coincide con la sua costruzione, durata 182 anni dal 1163 al 1345. Il secondo periodo inizia con la redenzione della cattedrale nell’immaginario collettivo, grazie all’omonimo romanzo di Victor Hugo del 1831, e termina 33 anni dopo, nel 1864, con il completamento del progetto di restauro di Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc. La terza fase è quella attuale, iniziata con l’incendio del 15 aprile 2019, che ha distrutto il tetto dell’edificio e la guglia progettata da Viollet-le-Duc, e destinata a terminare – secondo le promesse del Presidente francese Emmanuel Macron – prima dell’apertura delle Olimpiadi di Parigi nel 2024.
Se da un lato i magnati di tutto il mondo si sono immediatamente mobilitati, devolvendo in pochi giorni quasi un miliardo di euro alla ricostruzione della cattedrale, dall’altro lato gli architetti non sono stati da meno con le loro idee e proposte di rifacimento. Massimiliano Fuksas, ad esempio, ha rilasciato un’intervista ai media già il 16 aprile, suggerendo l’aggiunta di un tetto e di un pinnacolo in “cristallo di Baccarat”. 
Pochi giorni dopo, ecco comparire un primo rendering online. Si tratta di un’immagine di bassa qualità creata da un collaboratore del quotidiano britannico The Times, che mostra la cattedrale con una semplice realizzazione in vetro del tetto e della guglia precedenti. Quella pubblicazione, insieme a una citazione di Norman Foster, ha fatto sì che la proposta venisse erroneamente attribuita al suo ufficio, e non ci è voluto molto perché questo incoraggiasse altre proposte. Condivisi ampiamente sulle piattaforme di social media e sui siti web di design, alcuni di questi contributi hanno sviluppato ulteriormente la proposta di utilizzare il vetro avanzata dallo Studio Fuksas e dal Times: alcuni hanno suggerito di convertire il tetto della cattedrale in serre pubbliche; altri sono stati più creativi, avanzando l’idea di un tetto fatto interamente di vetro colorato o di una piscina pensile; un progetto, etichettato come “blasfemo” da alcuni commentatori, prevedeva addirittura la sostituzione della guglia con una replica in fibra di carbonio placcata in oro del tragico incendio. 

Le proposte sui social si sono susseguite senza sosta: da una rampa di lancio per razzi nel cuore di Parigi, a un pallone rosa brillante che fluttua sulle teste dei futuri visitatori della “nuova” cattedrale, fino a un enorme parcheggio allestito nei piani superiori dell’edificio per rendere l’Ile de la Cité accessibile a chi ancora non vuole rinunciare a circolare nel cuore delle città con un veicolo privato. Molti hanno criticato questi progetti, mettendone in dubbio le qualità intrinseche, ma anche denunciando la spregiudicatezza degli architetti, che hanno “abusato” dei ricordi delle macerie ancora fumanti della cattedrale nella speranza di ottenere un incarico prestigioso o anche solo un po’ di attenzione a buon mercato.
Sei settimane dopo l’incendio, il Senato francese ha stabilito in un’apposita legge che Notre-Dame andrà ripristinata al suo «ultimo stato visivo conosciuto». Fine della storia? Sfogliando la già citata collezione di “Nuove Notre-Dame” realizzata in pochi giorni – dove ogni immagine pare un collage improvvisato di elementi poco affini – ci si chiede se la tipica ossessione dei designer per l’originalità non stia forse diventando obsoleta. 
Ad ogni modo, per quanto astruse od opportunistiche possa-no sembrare, le proposte di ricostruzione di Notre-Dame ci insegnano anche una lezione preziosa: il passato è un vasto archivio su cui possiamo e dobbiamo costruire. Affinché il design si evolva, le ri-azioni – come ri-muovere, ri-utilizza-re, ri-collocare, ri-cordare, ri-ferirsi, e non da ultimo, in linea con il tema di questo numero di Urbano, ri-produrre – vanno liberate da qualunque colpa morale e, alla fine, anche legale. Ci sono e ci saranno ancora innumerevoli nuove Notre-Dame, dentro e fuori il panorama architettonico e urbanistico: dati, oggetti, prodotti, materiali, tradizioni, linguaggi, siti naturali, paesaggi culturali o formazioni geologiche sono tutti destinati a invecchiare. Noi vorremmo solo riprodurli e, perché no, farli evolvere. E in questo non c’è nulla di male.