L'ALTRO CAMPANILE DI SAN MARCO

di Luca Molinari
Professore presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"

Ore 9.52 del 14 luglio 1902. Il campanile di San Marco a Venezia, uno dei monumenti più noti dell’architettura italiana nel mondo e simbolo della città, si sbriciola davanti agli sguardi esterrefatti degli astanti e di alcuni fotografi che attendevano il tracollo del gigante che da alcuni giorni lanciava segni inequivocabili della sua fine. Una nube di polvere, detriti e calcinacci invade la piazza e acceca la folla presa dal panico. Un silenzio irreale avvolge il luogo. Le vetrine dei negozi sono frantumate ma i monumenti adiacenti non presentano danni irreparabili. La sera stessa il Comune stanzia una cifra ingente per la ricostruzione e, a distanza di un anno, il sindaco Filippo Grimani annuncia che il campanile sarebbe stato ricostruito «com’era, dov’era», stabilendo un motto che avrebbe accompagnato tanti dibattiti simili nel nuovo secolo, da Firenze passando per Varsavia dopo la Seconda Guerra Mondiale.
In effetti il campanile di San Marco venne ricostruito secondo il progetto di Luca Beltrami che ne realizzò una copia perfetta, inaugurata in gran pompa il 6 marzo del 1912, e che oggi non lascia percepire ai milioni di turisti distratti e frugali quello che avvenne 120 anni fa!
Il santuario di Ise, nella prefettura di Mie in Giappone è arrivato alla sua 62a ricostruzione che avviene ogni vent’anni (la prossima sarà nel 2033). Il modello che rappresenta l’anima in-discutibile dell’edificio religioso, uno dei luoghi più sacri della religione Shintoista, è indifferente al fatto che, con una cadenza regolare, tutto venga smontato e perfettamente ricostruito, indicando un principio di rigenerazione che è prima di tutto simbolico e quindi materiale. Guardando a questo esempio sembra svanire completamente la distinzione tra originale e copia rinnovata, se non fosse per l’ossessiva ricerca della materia natale che contraddistingue la cultura occidentale dalle sue origini e che ritroviamo con varianti più o meno filologiche in molti monumenti restaurati.
Ma oggi il problema sembra ampliarsi ancora di più. 
Basta attivare Imagen di Google o DALLE di OpenAI per confondere ancora di più le acque. 
Entrambi sono programmi d’intelligenza artificiale (AI) che partono dalle nostre parole e le trasformano in immagini apparentemente originali, ma derivate dall’assemblaggio di milioni di fotografie, video, quadri contenute in un database che con-sente ad AI d’immaginare e ideare un’illustrazione originale. Non è in fondo così che anche noi pensiamo? Collegando immagini, sensazioni, ricordi presenti nel nostro cervello e ricombinandole grazie al talento che tutti noi, più o meno, possediamo?Quando Imagen produrrà una nuova architettura per il Metaverso come la potremo considerare? Un’originale o un sofisticato montaggio e quindi una ipercopia della realtà?

In un tempo inquieto e vittima di una metamorfosi strutturale come quella che stiamo vivendo oggi, il ritorno a immagini e architetture rassicuranti sembra la vera panacea alle nostre paure. Pensate solo alle decine di Mall e Centri Commerciali assemblati visivamente come perfetti cut-and-paste delle architetture tradizionali o vernacolari. Queste architetture, veri sotto-prodotti del primo post-modernismo, erano l’antidoto formale all’alienazione da iper-modernità, eppure la sensazione che tutti noi abbiamo provato era quella di vivere in un luogo falso, posticcio e impossibile da abitare.
Volendo spostare la nostra riflessione dalla copia utilizzata per generare un luogo artificiale e sradicato dalla vita di tutti i giorni, alla copia come necessità creativa, ci troveremmo di fronte a un altro scenario di senso.
Ogni autore ha bisogno di copiare, di succhiare amorosamente e avidamente la linfa di alcune fonti da cui attivare e fare crescere il suo percorso. Si tratta di una condizione che lega la nostra capacità progettuale insieme al principio di astrazione e quello mnemonico, portandoci a immaginare nuove forme e spazi. La copia, svolta criticamente e consapevolmente, è alla base del principio di traduzione e necessario tradimento che costituisce la progettazione architettonica. 
La città è una somma di varianti stilistiche, formali, materiali che costituiscono quella infinita variazione sul tema di alcune tipologie che definiscono la matrice dei nostri centri abitati e che noi involontariamente riconosciamo.
Grazie a Complessità e Contraddizione dell’architettura di Robert Venturi si è aperto il vaso di Pandora della Storia e l’abbandono del senso di colpa di tanti architetti modernisti che non sapevano più come comportarsi con quell’immenso patrimonio di forme e stili apparentemente cancellati dalle gloriose avanguardie. 
Ma non è neanche il richiamo al pastiche stilistico che può risolvere il problema della nostra complessa relazione con le tradizioni e le storie che hanno formato i nostri paesaggi. Probabilmente oggi ci potremmo permettere una relazione più laica e libera con la copia, le storie e quell’immenso patrimonio di linguaggi e soluzioni che troviamo nelle nostre città, per generare forme più visionarie e spiazzanti.