IPOGEO URBANO

di Luca Molinari
Professore presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"

Durante gli anni Ottanta, in una serie di mitici workshop organizzati dalla rivista Domus a Napoli, Carlo Aymonino, uno degli autori invitati a partecipare, produsse una serie di disegni molto suggestivi in cui tutti gli interventi progettuali erano concentrati nel ventre della città partenopea.
Chi conosce Napoli sa benissimo che, fin dalle sue origini, il centro urbano venne realizzato con la pietra calcarea estratta direttamente nelle cave poste direttamente sotto i suoi piedi. Napoli è da sempre doppia (almeno!) perché il vuoto della mate-ria nel suo ventre corrisponde al pieno delle architetture che la compongono, e gli spazi monumentali che si susseguono in un labirinto senza fine sono stati usati come cimiteri, catacombe, chiese e luoghi di culti misterici, rifugi antiaerei, magazzini per i contrabbandieri, rifugi di emergenza dopo il terremoto e durante l’epidemia di colera.
Pensando poi alla pietra arenaria che ne compone il centro antico e alla sua forte porosità, viene da immaginare il movi-mento dell’aria e degli umori profondi della città, gli echi e i suoi suoni più inattesi che si muovono inquieti tra i fori invisi-bili e capillari della pietra, passando per le cantine, le cave e i grandi antri in un crescendo di rumori e canti che poi si sfogano fino al mare con cui le profondità dell’urbe si fonde, costruendo il suono profondo di Napoli, la sua anima ribelle e il canto da sirena che ogni volta ci soggioga.
Il sottosuolo e le sue memorie sono materia necessaria per capire le metropoli e la storia urbana dell’umanità.
Nel ventre della terra uomini e donne hanno cercato il divino e un contatto più diretto con le forze telluriche, ambendo ogni volta a una relazione diretta con il cielo che sovrastava le loro teste. L’axis mundi lega cielo e terra, inferi e paradiso, alto e basso in una sequenza che tenta di legare l’umano a tutte le altre forze viventi e soprannaturali che lo circondavano. Non è un caso che nel Pozzo di santa Cristina in Sardegna o nel tempio megalitico di Hal Saflieni a Malta – quest’ultimo considerato, a oggi, l’edificio di culto più antico del mondo – il momento di massima tensione fisica e mistica è durante i solstizi di estate e d’inverno, quando una lama di luce entra nella terra e illumina un circolo d’acqua nel primo caso o l’altare principale nel secondo. Non esiste cielo senza terra e il pensiero che li collega ha una naturale immaginazione circolare che tiene insieme tutti i viventi, le stagioni, il clima e il paesaggio che li compone e avvolge. Ma il ventre della terra ha anche accolto città intere, prima di portarle definitivamente sopra la linea di terra.
La Cappadocia è una di quelle regioni del mondo in cui gli umani hanno cercato rifugio e protezione sottoterra arrivando a soluzioni così raffinate dal punto di vista insediativo e tecnologico da essere ancora studiate.

La città di Derinkuyu, nel cuore della Turchia, è forse uno dei centri ipogei più famosi al mondo, per gli otto livelli che la costituiscono fino ad arrivare ad 85 metri di profondità e una popolazione stimata di ventimila abitanti nel momento di massimo fulgore. Abitazioni, templi, mercati, allevamenti di bestiame, terme e tutte le strutture pubbliche di una vera città in cui il flusso di aria fresca e la presenza di acqua era garantito da un sofisticato sistema di areazione e captazione delle acque profonde che assicurava un importante comfort termico, oltre alla difesa dalle minacce esterne. È evidente che la storia di questo e di altri duecento centri, collegati tra di loro grazie alla lavorabilità della pietra vulcanica e a un sistema di tunnel, è legata alla necessità di alcune comunità di sfuggire a persecuzioni e aggressioni, ma la vastità dell’intervento indica qualcosa di più di un semplice rifugio temporaneo, tanto che questo modello insediativo lo ritroviamo in Lucania e a Matera, come in altre parti del mondo.
La storia urbana dell’umanità ha poi preso altre traiettorie e ha mantenuto nel suo ventre solo le funzioni più misteriche e segrete almeno fino all’avvento della modernizzazione, quando la sezione delle città si amplia e riconquista le sue profondità. C’è una immagini di limine molto affascinante ed è quella raccontata da Victor Hugo ne I Miserabili, quando si sofferma a descrivere la comunità di reietti (miserabili, appunto) che popolavano i sottofondi di Parigi, utilizzando le antiche catacombe e le grotte, pochi decenni prima che il piano Haussmann e la costruzione della metropolitana invadessero questi luoghi. Improvvisamente la città misterica e alchemica si scontra e viene colonizzata da quella moderna e razionale grazie alle sue tubature per le acque bianche e nere, le fogne, l’elettricità, il gas e tutte quelle materie vitali per la vita insonne di una grande metropoli moderna. Di colpo ognuno può scendere comoda-mente nel ventre oscuro della città senza passaggi segreti e sotterfugi, ma solo per prendere la metropolitana o un treno veloce che colleghi rapidamente parti separate della città. Non c’è più spazio oggi per la grotta di Batman a Gotham City (alias New York), perché anche le linee abbandonate della metropolitana sono soggette a progetti di riconversione in nuovi spazi pubblici e culture idroponiche a basso contenuto di luce. In una metro-poli che cresce a dismisura ogni spazio è buono e ha valore e ci riporta a quei luoghi che per secoli non avevamo guardato per il loro potere perturbante.